Oggi è una giornata ostica: le aragoste sono state messe alla gogna. E non dico per dire: per evitare di bollirle vive e di provocare loro dolore (perché, dopo i ricchi, anche i crostacei piangono) si è deciso di bruciacchiarle con un meccanismo che ricorda in tutto e per tutto quello della sedia elettrica. Così soffrono in fretta. Saranno contenti gli animalisti (ma non ci scommetterei) o coloro che le consumano con un discreto senso di colpa. Meglio comunque non farlo in pausa pranzo… E non mi dilungherei tanto sul perché.
Le aragoste sono libere di morire senza sofferenze prolungate e con loro anche scampi e gamberetti. Ignoro cosa ne pensi Nemo, ma confesso che un’immersione per conoscere pareri e polemiche (dannata anima da giornalista!) me la farei volentieri.
Comunque. Un recente studio ha dimostrato che soffrire un po’ non è cosa del tutto condannabile. Credo ci si riferisca a una tristezza estetizzante, una mestizia che non ottunde, non ingrigisce e non segna. E se segna, regala piacevoli solchi chiamati rughe, capaci di segnare il tracciato dei nostri passi nelle cose di questa dimensione.
Una malinconia produttiva, quindi, renderebbe più sensibili (come se già non lo fossimo, dannazione).
L’articolo a cui faccio riferimento (La Repubblica, giovedì 19 novembre 2009, Così la tristezza ci rende migliori di Enrico Franceschini, pag. 42) sostiene che «gli individui, quando sono in uno stato di tristezza, ricordano meglio gli eventi, hanno una maggiore capacità di persuasione e una migliore capacità di giudizio». (…) «… dobbiamo chiederci, in una società come la nostra in cui tutti cercano la felicità piena ad ogni costo, se davvero vorremmo eliminare completamente dalla nostra esistenza un po’ di normale tristezza ».
Ok, non eliminiamola. Teniamocela.
No, lo dico davvero: se pure lei ci farà diventare migliori, teniamocela. Culliamola, ma come fosse un tango: balliamo il nostro pensiero triste.
E poi pensiamo ai nostri giorni, al senso di straziante nostalgia per i precedenti. Insomma, che sia saudade, ma saudade potente. Che sia rimpianto e mancanza. Che sia tensione verso un orizzonte che non si giunge mai ad accarezzare veramente.
E cantiamo pure. Mica si scherza qui…
« Chega de saudade
a realidade é que sem ela
não há paz, não há beleza
É só tristeza e a melancolia
[…]
Mas se ela voltar
se ela voltar, que coisa linda,
que coisa louca
[…] »
Finita la dose quotidiana di tristezza (quella che ci fa diventare più profondi), proporrei di buttarsi anima e corpo nella felicità. Se non altro, per amor d’equilibrio.
Le aragoste a furia di essere tristi hanno migliorato la loro capacità di giudizio, questo è assodato. Ma, in un futuro non troppo lontano, spero che ballino tanghi e che magari i gamberetti ridano a squarciagola, perché – forse – non esisterebbero studi scientifici inappellabili, se ognuno potesse seguire se stesso in piena libertà.
Sogni d’oro!
Camilla
Zelda was a writer