Buongiorno, buon martedì!
Forse non tutti sanno che questa foto ha vinto un concorso fotografico indetto da Nikon Singapore e che la stessa, da qualche giorno, è al centro di polemiche sulla sua veridicità.
In effetti, è stata photoshoppata e l’aereo che vedete comparire in un magico momento di qui e ora, assoluto e irriproducibile, non è altro che una grossolana aggiunta da post-produzione. Per maggiori informazioni, vi invito a leggerne su Repubblica.it (da cui ho tratto la foto).
Non sono qui per condannare il fotografo coinvolto e tantomeno per parlare male di concorsi fotografici sul web. Vorrei concentrarmi, invece, sul senso profondo di una foto spacciata per reale.
A scanso di ogni equivoco, così come adoro il collage, mi esaltano enormemente certi fotomontaggi. Se dichiarate, le azioni creative diventano scelte. Scelte compositive, scelte di contenuto, azione, denuncia. Ogni scelta porta con sé un vissuto, un punti di vista, l’ineluttabilità di un momento che, anche volendo, non sarà mai uguale a nessuno di quelli che l’hanno preceduto e che lo seguiranno.
Che senso ha pubblicare una foto in cui non ci sei? Per esserci non intendo comparire ma entrare a far parte del meraviglioso gioco performativo che innesca uno scatto. Che senso ha pubblicare una foto che non riconosci perché mai accaduta, che non ti riconosce perché non eri veramente lì con lei?
Che senso ha rubare le foto altrui spacciandole per proprie? Tra dicembre e gennaio, ho subito un furto: uno sconosciuto ha prelevato un centinaio di foto dal mio profilo instagram e le ha spacciate come proprie, con una sciatteria senza pari e didascalie sgrammaticate, fuori contesto.
La cosa più brutta di questa esperienza è stato guardarsi senza riconoscersi, vedere parti di sé smembrate. La cosa più rassicurante è che io non ero lì. La mia gioia, i miei ricordi erano al sicuro, nel mio cuore.
Che senso ha diventare il custode di un attimo mai capitato o il testimone di un frammento di tempo mai vissuto?
Sono domande a cui non riuscirò mai a dare una risposta.
Forse ci riuscirebbe lui, Italo Calvino. Anzi, ne sono completamente certa. E così, ancora una volta, vi invito a leggere le sue Lezioni Americane e a credere fortemente di essere il granello di sabbia di un arenile: visto da lontano appare simile a tanti altri ma, in realtà, è unico e irriproducibile.
Mi dico che bisognerebbe insegnare, non solo il rispetto della proprietà altrui, ma anche quello verso la propria esistenza che, per quanto possa apparire ordinaria, è comunque costellata di grandiosi momenti e infinite possibilità di conoscenza e bellezza.
Bisognerebbe tornare a spiegare il senso profondo del silenzio, musicale e iconografico. Il silenzio della pazienza, delle attese. L’attesa di un’idea che arriva, di un aereo che passa nella nostra porzione di cielo. La felicità dell’avere atteso, la felicità dell’imprevedibile nelle nostre mani.
Bisognerebbe instillare nelle persone il sentimento della loro preziosa unicità, della loro miracolosa diversità.
Forse i concorsi, anche quelli fotografici, dovrebbero essere basati meno sulla ricerca esponenziale dell’effetto e più sulla qualità dell’atto creativo, su quello che viene raccontato in immagini. Forse bisognerebbe ridare loro dignità e non renderli l’ennesima occasione per parlare di un prodotto, di un’Azienda. Tutto si può fare, se il contenuto viene difeso.
È fatto certo che lo stile, certe esigenze di racconto e certi bisogni creativi navighino in un supposto mare, denso di correnti e di onde altissime. Trovo sempre stupefacente riscontrare quanto una certa urgenza artistica viaggi a veloci giri, coinvolgendo persone lontane chilometri, lontane per punti di vista ed educazione.
Questo fatto speciale, che dovrebbe farci riflettere su quanto l’unica vera Famiglia sia quella Umana, è reso ancora più accessibile dal web, dalla sua velocità, dalla sua facilità nell’unire posti distanti chilometri e chilometri.
La tristezza del connettersi, trovando luoghi asfittici, quantità imbarazzanti di cloni e copie ci allontana da questo miracolo, dal senso di unione che le nostre esigenze di esseri appartenenti alla stessa famiglia sono in grado di generare.
Creiamo per sentirci compresi, per dare un senso ai nostri passi, per un bisogno insopprimibile di sondare – fosse anche in buchi neri e pericolosi. Creiamo per lasciare traccia di noi, per testimoniare la magnifica occasione di vivere un attimo solo nostro.
Ci sono cose che anche se migliorate, copiate, truccate da mille filtri non racconteranno mai la verità di chi le ha vissute e prodotte.
La verità di un creatore non è la verità di tutti, porta il suo stampo, la sua pelle. Chi lo copia non gli fa un tributo (come spesso si usa dire) ma – cosa che reputo drammatica – dichiara pubblicamente la sua INCAPACITÀ di lavorare sulle sue idee, sulle sue velleità.
Che senso ha, detto tutto questo, essere in un luogo di cui non abbiamo visto nulla, abbracciati a un amore che non ci ha mai guardato nel cuore, testimoni di una vita non nostra?
Se non ci siamo davvero sporcati nelle cose della vita, se non abbiamo sbagliato e forse – non è detto – capito, se non abbiamo spaccato la testa su un’intenzione che non riusciva a lasciare il mondo delle idee, se non è successo tutto questo, a cosa serve fingere di averla frequentata?
Il rischio di questo meccanismo perverso è rincorrere tutta la vita il clamore senza ricercare mai il contenuto. Credo che nessuno sia veramente immune da questo pericolo e credo anche che la cosa migliore per aggirarlo sia continuare ostinatamente a fare.
Camilla
Zelda was a writer
Che alla fine, viene anche da dirgli: “Poverino, mi dispiace, credi di saltare la scuola ma in verità ti stai perdendo la festa”
Non so come ci si senta perché finora non ho subito furti (o forse non lo ;-) ), ma credo che possa regalarti solo tanta amarezza. Concordo con te quando dici che chi copia, non fa un tributo ma dichiara solo un’incapacità a creare. Se ti può essere di consolazione, tu sei molto riconoscibile e, chi ti segue, non si lascerebbe fregare da un ladruncolo di foto. Avanti tutta.
Ps. I tuoi nuovi quaderni sono uno schianto!
Ciao, ti seguo da tanto ma non commento quasi mai. Ma questo argomento mi tocca da vicino.
C’è da dire che fare costa fatica, copiare invece no. Io detesto chi copia perchè per anni sono stata una che predeva tempo (prezioso, me tapina, me ne rendo conto adesso che ne ho pocherrimo) cercando di piacere agli altri per forza. Questo attegiamento porta all’emulazione dell’altro e alla perdita di se stessi, della valorizzazione della propria unicità, che invece è la cosa più inestimabile che abbiamo.
Io non ho mai copiato, ma tante volte, guardando il lavoro degli altri l’ho giudicato erroneamente migliore del mio. Erroneamente non perchè non lo fosse, ma semplicemente perchè, come dici tu, anche il granello di sabbia se guardato da vicino è unico e imprescindibile.
Ora come ora la soddisfazione di creare cose che mi piacciono è indescrivibile.
Ma arrivarci è faticoso, la strada per me è stata tutta in salita e piena di curve: quelli che rubano pezzi di vita altrui sono spaventati da quella salita.
l’arte non è per i pavidi.
Ps. io voglio una barca a remi di taccuini marittimi. Sappilo eh.
con affetto
Laura