Domenica sono stata a vedere L’Eclisse di Joyce Carol Oates (Teatro Elfo Puccini, fino al 4 dicembre 2016).
Nutrivo grandi aspettative sullo spettacolo per tanti motivi, uno di questi – il più forte – era Ida Marinelli e il fatto di poterla tornare ad ammirare nel ruolo di protagonista (avevo già parlato di lei qui). Provo un grande amore per questa attrice, tanto che ogni volta che attraversa il palco sento subito che la sua presenza mi regalerà uno spunto, una gioia, un profondo moto del cuore. È sempre così, non mi delude mai.
Anche questa volta è capitato. La sua Muriel Washburn, una madre sul finire dell’esistenza, ha aperto una falla di dolore fortissimo e una serie di considerazioni che mi porto ancora dentro, a distanza di giorni. La sua presenza non sarebbe stata altrettanto forte senza il perfetto contraltare di Elena Ghiaurov, una Stefaphie Washburn – la figlia di Muriel – drammaticamente appesa al debole filo di percezione di sé, in un ritmo tutto interiore, incalzante, ansiogeno.
Purtroppo iniziavo ad accusare i sintomi dell’influenza di queste ore e così non sono riuscita a godermi lo spettacolo come avrei desiderato. Ve lo dico perché mi sembrava di avere perso una buona occasione e invece, con il senno del poi, credo che questo stato fisico sia stato un alleato perfetto.
Vi avverto: con L’Eclisse non piangerete. Anzi, ci saranno dei punti che stimoleranno giustamente la vostra ilarità. Riderete della tristezza, forse, ma riderete e sarà il modo migliore per darle un posto a tavola, per evitare che si faccia fuori tutte le portate, che esca di casa senza essersi quantomeno presentata.
Le due protagoniste sanno miscelare talmente bene un dolore atavico, sotteso e sommessamente chiaroscurale con i paradossi della vita e con le sue infinite occasioni di risate agrodolci, che vi troverete a sentire montare un tormento, la voglia improvvisamente di distendere gli arti, il bisogno di guardare senza chiedervi troppo, senza sentirvi coinvolti.
Il finale – che non vi svelerò – potrebbe muovervi un moto di tristezza interiore ma sarà proprio sulla via del ritorno che andrete a cercare i vostri riferimenti, le falle dei vostri rapporti familiari, il senso di ingabbiamento che, malgrado la volontà e l’amore di chiunque ne sia coinvolto, avete certamente provato almeno una volta nella vita.
Trovo che questo spettacolo si comprenda solo dopo la sua fine. Credo vada digerito, che la cruda rappresentazione di un complesso – ma non tanto inedito – rapporto tra madre e figlia si palesi solo dopo che le buffe esternazioni di Muriel si sono quietate e l’idea di una Stephanie incatenata nella sua inconsapevole dipendenza dalla madre fa sentire la sua potentissima eco.
La vecchiaia e il trattamento che le riserva la nostra società è un tema che continua a colpirmi in modo viscerale. L’invecchiamento della popolazione, la sempre maggiore presenza di anziani rispetto ai nuovi nati, sembra inversamente proporzionale all’immagine fresca e agile della gioventù che ci propinano giornali e pubblicità.
La società dell’immagine e quella delle parole ci vogliono giovani e sempre nuovi, in un turbinio irrazionale di perfezione e compostezza. Non si accettano i segni di cedimenti della carne e dell’intenzione proprio mentre la società reale invecchia e si decompone, non trovando una voce che la racconti, che le dia una collocazione di senso, di valore.
La vecchiaia sarà uno stato sempre più presente nella nostra esistenza. In un certo senso, le numerose e oramai inesistenti famiglie del passato, con la loro logica dell’inclusione e del gruppo, avrebbero potuto sopperire a un cortocircuito emozionale e gestionale sempre più labirintico, che vede una madre e una figlia sbranarsi di troppo amore – una impossibilitata a deperire per non far soffrire la progenie, l’altre impossibilitata a espandersi per non creare strappo, solitudine, dolore in chi l’ha generata.
Proprio mentre vi scrivo, penso con il sorriso alle Crazy Old Ladies di Gaia e Justine perché, anche se in modo colorato, pop e decisamente sopra le righe, diffondono un messaggio fortissimo per il nostro futuro: dare spazio alle persone prima che ai loro ruoli, ai dati anagrafici, alla loro mera utilità sociale, alla tonicità photoshoppata della pelle, al famelico e superficiale bisogno di aria nuova che si porta dietro il nostro oggi.
Accettare questo enorme cambiamento anagrafico in cui siamo coinvolti per farne un punto di forza, di risata, di incontro. Non di dolore, non di esclusione, non di distruzione.
Camilla
Zelda was a writer
(la foto di Joan Carol Oates e sua madre Carolina è tratta da questa intervista – le foto dello spettacolo sono di Luca Piva)